(Tratto dal libro “Un indovino mi disse”)
27. Il meditatore della CIA
Così c'ero arrivato anch'io. Fermo come un sasso, seduto per terra, a gambe
incrociate, con le mani posate una sopra l'altra, all'altezza dell'ombellico,
le palme rivolte all'insù, la schiena dritta, le spalle rilassate e gli occhi
chiusi, a pensare alla punta del mio naso, a cercare quell'attimo in cui il
respiro, fatto lento e leggero, entrando e uscendo, tocca un punto preciso
della pelle. Un'ora dopo l'altra. Un giorno dopo l'altro: senza mai dire una
parola, mangiando vegetariano – l'ultimo pasto prima di mezzogiorno -, a letto
alle nove, senza leggere la pagina di un libro per non distrarsi, cercando di
essere sempre cosciente di ogni gesto. Di ogni pensiero, di ogni sensazione.
La meditazione: avevo passato mezza vita in Asia e non me n'ero mai occupato.
Sentivo di gente che faceva, che andava a questi corsi, ma mi pareva una cosa
che non mi riguardava, una roba per disorientati, una risposta d'evasione ai
problemi del mondo. E' incredibile ma è così. In Cina, in Giappone, in
Tibet, in Corea, in Thailandia, in Indocina avevo visitato decine di templi,
passato giornate e giornate nei monasteri buddhisti, ma il problema della
meditazione non me l'ero mai posto. A che serve? Come la si fa? Qual'è il suo
senso?
Attratto dalla bellezza plastica delle statue, avevo accumulato diversi
Buddha, ci ero vissuto insieme - uno birmano, di bronzo aveva presieduto
silenziosamente alla mia biblioteca per più di vent'anni -, ma non mi ero mai
chiesto che cosa ci facesse lì, seduti nella posizione del loto, con quel loro
sorriso magnanimo, gli occhi semichiusi, una mano in grembo e l'altra che
toccava la terra. Davvero non me l'ero mai chiesto, come qualcuno che non si
fosse mai domandato il senso di un Cristo sul crocefisso che fin dalla nascita
ha avuto sopra il letto.
Ma la vita è anche un continuo spreco. Quante belle persone si incontrano
senza che cene si accorga ; e quante belle cose non si notano sulla via che uno
fa ogni giorno, tornando a casa! Occorre qualcuno che ti fermi e che ti faccia
prestare attenzione a questo o a quello. Il cammino che aveva portato me al
ritiro di Pongyang era stato quello di un labirinto, ma alla fine un po'
seguendo il filo degli indovini -“Medita!” mi avevano detto in tanti -, un po'
seguendo i sassolini bianchi seminati dal Karma Chang Choub, avevo dato retta a
Leopold che, dopo avermi tante volte parlato del suo “maestro”, a novembre mi
aveva detto che john Coleman sarebbe venuto a tenere uno dei suoi famosi corsi
in Thailandia e mi aveva raccomandato di andarci. “Devi capire la meditazione”,
diceva,”altrimenti che cosa ci sei stato a fare tutti questi anni in Asia?”
L'idea di imparare a meditare da un americano, ex agente della CIA, mi
pareva strana, ma è vero, come diceva Leopold, che spesso ci vuole un
meditatore occidentale per arrivare a capire certe cose dell'Oriente.
Il ritiro era a Pongyang, nel Nord della Tahilandia. Sul fianco di una vale
stretta e verdissima c'erano i bungalow di legno con i tetti di paglia, sparzi
fra cespugli di bambù giganti, macchie di fiori e boschetti di frangipane;
sull'altro fianco della valle c'era la vecchia giungla con gli alberi dalle
grandi chiome spumose. Il padiglione della meditazione era una terrazza di
legno, poco lontano da una spumeggiante cascata d'acqua. Il torrente formava
poi un piccolo lago bordato di fiori rossi e arancione.
La giornata cominciava prima del levar del sole, con i colpi di un gong
che, dalla terrazza, rimbombava, gentile ma severo, attraverso la valle,
facendo presto apparire la trentina di pile a mano dei partecipanti che, come
lucciole nell'oscurità, risalivano la collina. Ciascuna prendeva posto sul suo
cuscino quadrato e meditava per un'ora, rivolto verso una pedana sulla quale,
accanto ad un piccolo altare con Buddha e dei fiori, meditava il “maestro”.
Seguivano la colazione, due ore di meditazione guidata, con un intervallo di un
quarto d'ora, il pranzo -vegetariano- alle undici, due ore di riposo e poi di
nuovo ore di meditazione. Al tramonto c'era una lezione sul Dharma, la via del
Buddha. Il gong ritmava le ore. L'ultimo suo tuonare, lento e caloroso, era
alle nove, l'ora di andare a letto.
Mi ci erano volute dodici ore di treno e una di macchina per raggiungere
Pongyang, ma sarei potuto ripartire l'attimo stesso in cui ero arrivato. Gli
altri partecipanti erano già lì, perlopiù erano signore di mezza età, non più
belle, non più amate, ma intelligenti e ancora curiose per non accettare i
ruoli di mediocrità loro assegnati dalla società e per questo in crisi con la
vita: lo stesso tipo di donne con cui, durante l'anno, ero sempre finito per
andare dagli indovini . Le Thai erano chiaramente ricche; le straniere erano
tutte veterane di altre meditazioni, alcune fanaticamente buddhiste, come lo
sono tutti i convertiti. Fra gli uomini non ce n'era uno con una vera faccia.
Uno svizzero diceva di essere lì perchè la salute era la sua “passione”; un
altro, un pittore canadese, perchè, con la meditazione contava di dipingere
meglio. E io che ci facevo? Mi sentivo come il paziente nella corsia di un
manicomio che cerca di convincersi che era stato portato lì per sbaglio o che
le sue condizioni non sono così gravi come quelle dei suoi vicini. I “maestri”,
poi - perchè John Coleman aveva un assistente e traduttore thailandese -, erano
un'insolita coppia. Coleman un omone grande pesante, gioviale e semplice, aveva
tutto tranne l'aria ascetica e santa che mi aspettavo da un meditatore. Il suo
assistente, sulla sessantina, magro, dritto, elegante, con i capelli bianchi
tagliati a zero come un marin, pareva esattamente quello che era, un generale
di polizia.
John e il generale si erano conosciuti a BangKok agli inizi degli anni '50,
ed era stato lui, allora giovane capitano, a mettere john, allora giovane
agente segreto americano, con la copertura di businessman, sulla via della
meditazione. Il capitano, con gli anni, aveva fatto carriera era stato aide
de camp del re, ed era andata da poco in pensione con la fama di
essere stato uno dei più onesti capi della polizia che la Thailandia avesse mai
avuto. Devoto buddhista, aveva praticato la meditazione per più di quarant'anni
e ora s'era fatto un dovere di insegnarla agli altri.
Vinsi la mia arroganza e restai. I primi giorni furono durissimi. Appena
seduto, la posizione del loto mi pareva comodissima, ma dopo un quarto d'ora
diventava insopportabile; dopo mezz'ora era una vera tortura: le ginocchia
sembravano riempirti di spilli, la schiena era tutta un crampo e il desiderio
di muoversi diventava fortissimo. Mai neppure per un secondo riuscivo a
“meditare”. Invece d'essere là dove il respsiro toccava la pelle, la mia mente
era “una scimmia che saltava da un ramo all'altro”, come John ci aveva
avvertiti, e non ero capace, neppure per un attimo, di farne “un bufalo solido
e forte, “mettergli una corda al collo e legarlo ad un palo”.
“Pensa solo a
quel punto, senti solo quella sensazione del respiro che tocca la pelle. Pensa
solo a quella sensazione...Sii cosciente del respiro che entra, che esce....e i
fuochi dell'ingordigia, dell'odio, dell'ignoranza, del desiderio,
dell'avversione si estingueranno e la mente sarà calma. Serena, libera dalla
paura, dall'angoscia...”
Tenevo i piedi sotto le ginocchia, gli occhi chiusi le mani ferme, ma la
testa, quando non si fissava sul dolore nelle gambe o sulla voglia di alzarmi o
di urlare, mi andava in tutte le direzioni: scappava e non riuscivo a
richiamarla. Non la dominavo; non era mia. Inutile. Il dolore diventava
insopportabile e ancor più che John annunciasse la fine dell'ora, interrompendo
il silenzio col suo Amen che era: “Possano tutti i nostri
meriti essere condivisi da tutte le creature”, io cedevo, mi muovevo, cambiavo
posizione, aprivo gli occhi....ed ero frustrato a vedere come certi altri
invece continuavano serenamente.
Varie volte fui sul punto di andarmene. Che senso aveva starsene ad occhi
chiusi dinanzi una bellissima natura? Che senso aveva pensare solo per negare
ogni pensiero e impormi artificialmente del dolore di cui la vita prima o poi
dà a tutti -e certo anche a me- la sua lode?
Ascoltai i primi sermoni del tramonto, irritato dalla loro sostanza. “Tutto
nella vita è sofferenza. Si nasce provocando sofferenza, si muore soffrendo. Si
soffre per quel che si vuole, si soffre per paura di perderlo quando lo si
ha...” diceva John. Mi infastidiva il suo parlare di “energia di livello
superiore”, di “affinare la lente d'ingrandimento della concentrazione”. L'idea
era che, passando i primi tre giorni a pensare solo a quel punto dove il
respiro tocca la pelle, la mente si sarebbe calmata. Sia l'esercizio
-chiamato anapana- sia la spiegazione mi parevano
intellettualmente umilianti.
C'erano però dei piaceri. Uno era il silenzio. Nella cerimonia di apertura
ci eravamo impegnati, in maniera abbastanza formale, a rispettare per tutta la
durata del corso i Cinque Precetti: non uccidere (e questo valeva per qualsiasi
essere vivente, anche le zanzare, per cui a Pongyang non venivano usati
insetticidi), non mentire non prendere ciò che non è dato, non avere rapporti
sessuali (“né con se stessi, né con altri” fu la formula usata), non prendere
intossicanti (non bere caffè e non fumare). C'eravamo in oltre ripromessi di
non mangiare dopo mezzogiorno, di non portare gioielli, di non portare profumi
e di non dormire in un letto troppo comodo. Inoltre C'eravamo impegnati a
mantenere il Nobile Silenzio, cioè a non parlare e a non fare rumori che
distrassero gli altri. E questo fu magnifico.
Durante le passeggiate fra una meditazione e l'altra si incontravano gli
altri partecipanti e non c'era bisogno di fare conversazione; un cenno muto
della testa bastava. A tavola non c'era bisogno di dire quaqlcosa tanto per
riempire il vuoto, che a volte pare insopportabile, con banalità ancora più
vuote. Ognuno era sempre solo con se stesso.
Il silenzio fu una grande scoperta perchè, senza quel primo piano delle
parole altrui, mi accorsi che anche la grandiosa bellezza della natura era nel
suo silenzio. Guardavo le stelle e sentivo il loro silenzio; la luna non faceva
rumore e anche il sole si levava e tramontava senza nemmeno un bisbiglio.
Persino il fragore delle cascate, i gridi degli uccelli o il frusciare del
vento, mi parevano alla fine parte di uno straordinario, animato, cosmico
silenzio di cui godevo, in cui trovavo pace.
Mi pare che, questo del silenzio, fosse un diritto naturale che ci era
stato tolto. Pensai con orrore a quanta parte della vita se ne va, calpestata
dalla cacofonia che ci siamo inventati con l'illusione che ci faccia piacere o
compagnia. Ciascuno dovrebbe, ogni tanto, riaffermare questo diritto al silenzio,
per risentire se stesso, per riflettere e ritrovare un po' di sanità.
Un altro piacere veniva dalla sforzo. Il fatto di essere impegnati a
rispettare le varie proibizioni acquistava, con il passare dei giorni, sempre
più valore e il mantenere l'impegno dava la sensazione di acquisire una forza.
John diceva che quello sforzo serviva a “creare una base di moralità” per lo
stadio successivo della meditazione. Ed era vero che lentamente, proprio per
aver fatto lo sforzo, uno sentiva di meritarsi qualcosa come ricompensa. “Negli
ultimi giorni capirete. Tutto avrà senso. Tutto troverà il suo posto”,
ripetevano John e il generale, dando da sperare che, a forza di concentrarsi su
quel punto dove il respiro tocca la pelle, avremmo preso il controllo della nostra
mente e con ciò ci si sarebbero aperti nuovi orizzonti.
Quella era la vera ragione per la quale ero lì. Durante tutto l'anno
passato in odore di indovini, in vari modi ero finito per trovarmi d'inanzi a
questa parola “la mente”, e per essere affascinato dalla possibilità dei suoi
“poteri”. M'era venuto da pensare che in occidente, per varie ragioni, con il
passare del tempo, l'uso della mente era andato limitandosi e che con ciò s'era
persa gran parte della sua capacità. Mi interessava riscoprire, se davvero
c'era mai stata, quella via dimenticata. Poteva la mente essere come un organo
che si atrofizza perchè non viene sfruttato in tutta la sua potenzialità?
Pensavo a me. Ogni giorno oramai da anni corro per qualche chilometro,
faccio ginnastica e cerco ti tenere in esercizio i muscoli che so essermi
utili. Ma quando mai mi sono occupato della mia mente? Quando mai ho fatto
degli esercizi per rafforzarla, per permettere ciò di cui è capace? La mente è
uno degli strumenti più sofisticati che abbiamo a disposizione, eppure non la
trattiamo neppure con il riguardo con cui trattiamo i muscoli delle gambe! Non
le insegniamo a concentrarsi, non la addestriamo più a sviluppare quei poteri
che in passato altri le hanno attribuito. Alexandra David Neel, la straordinaria
esploratrice francese dell'Himalaya degli anni '30, racconta di lama tibetani
capaci, con la mente, di smaterializzarsi e di altri capaci di comunicare tra
loro a grandi distanze. Tutto falso? Forse no. Forse c'era davvero qualcosa
nella mente umana che, strada facendo, abbiamo perso. E' stata l'ipotesi che da
qualche parte nel mondo ci fossero ancora esseri umani in grado di usare la
mente in questo modo a spingere alcuni europei alla loro ricerca in Asia. Nel
1924 un giovane inglese, Paul Brunton, andò in India a incontrare yogi,
eremiti e fachiri, cercando di capire come, attraverso l'esercizio
della mente, fossero arrivati a una “sapienza” che, secondo lui, la
modernizzazione stava facendo sparire.
Il primo passo di tutte le vie verso quella “sapienza” era la meditazione.
Allora, tanto valeva capire che cos'è.
Osservando John meditare, appena più in alto di me, sulla pedana, avvolto
in una grande coperta bianca, immobile come una statua di gesso. Era rilassato
e concentrato; la sua fronte era distesa e le sue labbra accennavano ad un
leggerissimo quasi beffardo sorriso -mi pareva-, come se con quegli occhi
chiusi vedesse qualcosa che mi era negato, come se con quelle grandi orecchie
dai lunghi lobi sentisse qualcosa di più che il silenzio della natura. John il
passo l'aveva fatto. Non so verso quale “sapienza”, ma certo verso una calma
che gli stava attorno come un alone.
Strana storia, la sua! Era nato nel 1930 in Pennsylvania da una famiglia di
minatori poveri. Cominciò a lavorare come meccanico e poi come fotografo. Da
militare fu mandato in Giappone. Si
stava concludendo a Tokyo il processo contro i criminali di guerra e John
fu mandato a fotografare gli imputati mentre venivano lette le sentenze di
morte. Congedato,tornò negli Stati Uniti, studiò all'università e fu assunto
dalla CIA. Fu addestrato a un lavoro particolarissimo: aprire e richiudere,
senza che lo si notasse, qualsisia serratura: quelle di una casa, di un
ufficio, di un'ambasciata, di una cassaforte. Le sue missioni consistevano
nell'arrivare in una città, studiare per settimane un edificio per poterci poi
entrare, fotocopiare documenti e ripartire. Nel 1950, con quel compito, fu
mandato a Trieste, poi a Roma. Nel 1954 arrivò in Thailandia per addestrare la
polizia di frontiera. Qui rimase colpito dal buddhismo e cominciò a meditare.
Passò qualche anno; la CIA, pensando ovviamente che quel suo agente fosse
ammattito, gli dette una pensione di invalidità: “malattia professionale”. Per
un po' John diresse l'Oriental Hotel di Bankok; poi si sposò, ebbe due figli e,
sempre meditando, finì con il fare di questo la sua missione.
Nel terzo discorso del tramonto sul Dhamma, “ la via della verità, della
purificazione, della disintossicazione” (e il mio stomaco si rivoltava a quel
linguaggio), John disse che il grande contributo del Buddha è d'aver capito che
l'essenza del mondo è la sua instabilità, la sua non permanenza, aniiccia. Da
qui viene tutta la sofferenza. Prendere coscienza di aniiccia è la sola via per
uscire dal dolore.
E così dopo tre giorni di anapana, di concentrazione sul
punto appena sotto le narici dove il respiro tocca la pelle, per prendere
coscienza delle sensazioni di contatto, di calore, di movimento dell'aria, si
passò alla vera meditazione, vipassana, la meditazione interna. Si
tratta ora di dirigere quella “ lente d'ingrandimento, quel fascio di
attenzione della mente, affinata alla concentrazione” alla contemplazione del
proprio corpo.
Si doveva dunque cominciare portando la mente a quel punto sotto le narici,
poi muoverla in altro, al centro della testa -capii finalmente perchè molte
statue di Buddha proprio lì hanno una fiamma- e dal punto più alto del corpo,
lentissimamente, senza perderne il controllo, spostare la mente nella pelle,
sotto la pelle, nel cranio, all'interno del cervello, negli occhi nel naso e
giù lentamente dentro il petto, nei polmoni, nel cuore, nelle vene, nelle ossa,
negli organi della pancia, e giù giù nelle gambe, nelle dita dei piedi, nella
suola, nel punto più basso del corpo, senza mai pensare ad altro, con la mente
puntata come una pila in una caverna, sempre prendendo coscienza di ogni
sensazione, rendendosi conto che tutte sono transitorie, che il dolore, il
piacere, il tocco del vento, un suono, sono sempre passeggeri. “Conoscere
aniiccia....continuamente a conoscere aniiccia....aniiccia è tutto”, ripeteva
con voce lenta e profonda John. Conoscere aniiccia. Un'ora dopo l'altra giorno
dopo giorno. Senza scambiare una parola con nessuno e da allora, anche fuori
della meditazione, sempre coscienti di ogni gesto, di ogni passo nel camminare,
di ogni boccone nel mangiare, di ogni sorso d'acqua che andava sentito scendere
nello stomaco e posarsi.
John alternandosi sulla pedana con il generale, cominciava le sue ore di
meditazione con una preghiera che si aspettava con piacere:
Possano tutti gli esseri avere pace e felicità.
Possano tutti gli esseri liberarsi
dall'ignoranza, dai desideri, dalle avversioni.
Possano tutti gli esseri liberarsi
dalla sofferenza, dal dolore dai conflitti.
Possano tutti gli esseri riempirsi di infinita
amorevole gentilezza ed equanimità.
Possano tutti gli esseri raggiungere
la completa illuminazione”.
Io, con ancora maggior piacere , aspettavo il suo amen che
metteva fine all'ora di tortura. Non facevo alcun progresso. Riuscivo, con
grandi sforzi e dolori, a stare più fermo che all'inizio, ma non era per questo
che ero lì, il fine era imparare a meditare, e in quello ero zero. Mi si
addiceva esattamente quello che, una volta, un famoso monaco-meditatore aveva
detto a John: “Ho visto una gallina restare immobile per tre giorni a covare le
sue uova, ma non ho mai visto una gallina illuminata”.
Con il passare dei giorni trovavo John sempre più convincente. Non c'era in
lui niente di falso, nessuna pretesa. Era un semplice che credeva di aver
capito una grande verità. Era un laico che faceva un esercizio, un esercizio
che non era necessariamente religioso, ma spirituale.
Entrando e uscendo dalla terrazza di meditazione si rivolgeva al Buddha,
salutandolo con le mani giunte sul petto: giusto un cenno di ringraziamento per
aver indicato la strada, Il Dharma. Non c'è in lui nessuna traccia di quella
platealità fideistica di altri convertiti.
Era lui la “persona superiore” che, secondo il giovane indovino di
Kengtung, avrei dovuto incontrare? I fatti sembrano rimanere perfettamente con
la profezia e quando John, nel suo discorso del tramonto, parlò di come agli
inizi, in Thailandia, nessuno voleva insegnargli a meditare e di come,
finalmente, Rangoon, aveva trovato il suo grande maestro, un leggero brivido mi
percorse. “Imparai da U Ba Khin”, disse. Si, lo stesso nome! “tu devi seguire
il metodo di U Ba Khin”, aveva detto il giovane di Kengtung, “è il migliore per
gente come te.” Lo stavo seguendo!
U Ba Khin cominciò tenendo dei corsi per i suoi dipendenti nel ministero,
poi nel 1952 fondò il centro internazionale di meditazione a Rangoon. Quando
nel 1971 morì, la meditazione era diventata un esercizio spirituale accessibile
a chiunque, come era stata duemilacinquecento anni prima, ai tempi del Buddha.
Il suo metodo consisteva nel concentrare tutti gli sforzi in un corso di dieci
giorni, così che il laico potesse poi tornare alla su vita normale e continuare
a meditare da solo. Secondo uno degli aneddoti, che John raccontava per
alleggerire i suoi discorsi del tramonto, il primo allievo di U Ba Khin era
stato un capostazione. Viaggiando come ispettore delle ferrovie in una zona
remota della Birmania, U Ba Khin, accompagnato dal responsabile dell'unica
stazione della regione, volle andare a rendere omaggio ad un famoso monaco
eremita, un arahant, un illuminato, che viveva meditando in
mezzo alla foresta. Quando arrivarono, una monaca disse loro che il maestro era
impegnatissimo e che non riceveva nessuno. “Ma noi veniamo da lontano e
vogliamo solo rivederlo”, disse U Ba Khin. In cima ad un alto palo c'era una
sorta di nido-capanna, fatto di foglie e di bambù, dove il monaco meditava da
giorni. Si spalancò una porticina, ne uscì un nugolo di mosche, poi la testa
dell'arahant.
“A che cosa miri?” chiese semplicemente il monaco.
“Al Nirvana”, ribattè U Ba Khin.
“E come conti di arrivarci?”
“Capendo aniiccia.”
“Bravissimo. Insegnalo allora anche ad altri” disse l'arahant e
chiuse la porticina tornando a meditare.
U Ba Khin ordinò al capostazione di mettersi nella posizione del loto e gli
disse di respirare concentrando la sua attenzione dove sul punto in cui il
respiro tocca la pelle. L'aver rimesso la meditazione alla portata di
tutti aveva ridato vita alla pratica e aveva facilitato la sua diffusione in
occidente. John era stato fra i primi allievi di U Ba Khin e da lui era stato
autorizzato ad insegnare, soprattutto in Europa. “Allora, maestro, tu che
conosci l'occidente non ti offenderai”, gli dissi nell'unico momento in cui,
chiamato nel suo bungalow per riferire sui progressi che facevo nella
meditazione, ero autorizzato a rompere il Nobile Silenzio, “non ti offenderai
se ti dico che in tutti questi giorni non ho meditato un solo minuto; che
invece di concentrarmi sul naso, la mia mente ha fatto di tutto, dal
ridipingere la casa in campagna ad un progetto per allargare la biblioteca;
quando dici “gambe”, penso a quelle sotto le gonne di tutte le thailandesi che
mi stanno lì accanto, anche alle gambe di quella vecchia e brutta in ultima
fila!”
Jhon rise divertito. “ Non disperarti”, disse. “ Anche tutto quello che
dici è passeggero. Finirà. Magari sono secoli che la tua mente non è stata
messa sotto controllo. E ora, tutt'a un tratto, pretendi di domarla? In pochi
giorni? Aspetta. Tieni duro. Continua a conoscere aniiccia.”
L'idea che "in tutte le mie vite precedenti" la mia mente non
fosse mai stata esercitata mi faceva davvero ridere. Ma chissà? Poteva anche
essere così.
Quello che mi è sempre piaciuto del buddhismo è la sua tolleranza,
l'assenza del peccato, la mancanza di quel peso sordo che noi occidentali ci
portiamo sempre dietro e che è in fondo la colla della nostra civiltà: il senso
di colpa.
Nei paesi buddhisti niente è mai terribilmente riprovevole, nessuno ti
rinfaccia mai qualcosa, nessuno ti fa mai una predica o cerca di darti una
lezione. Per questo sono paesi piacevolissimi e fanno sentire a loro agio tanti
giovani viaggiatori occidentali, in cerca appunto di libertà.
Il buddhismo ti lascia in pace, non ti chiede mai nulla, tanto meno di
diventare buddhista. I monaci, fra i loro vari divieti -compreso quello,
interessante, di non vantarsi dei progressi fatti nella meditazione-, hanno anche
quello di non insegnare la loro religione a chi non ne fa specifica domanda. Il
buddhismo ti lascia in pace, non ti chiede mai nulla, tanto meno di diventare
buddhista. I monaci, fra i loro vari divieti - compreso quello, interessante,
di non vantarsi dei progressi fatti nella meditazione -, hanno anche quello di
non insegnare la loro religione a chi non ne fa specifica domanda. Il buddhismo
ti lascia sempre essere quello che vuoi. Dice di non ammazzare, ma tutti
ammazzano. E gli assassini? Fatti loro. Saranno mal reincarnati! Nessuno cerca
di far giustizia ora, qui. Anzi, quella, proprio no. Non tocca a noi. Per
questo la carità non è un dovere morale. Al contrario: aiutare i poveri
impedisce loro di liberarsi del cattivo karma; prendersi
cura di un lebbroso vuol dire impedirgli di riscattarsi con la sofferenza e di
rinascere meglio. La casa del vicino brucia? Avrà a che fare con la sua vita
precedente!
Ancor più che una religione, il buddhismo è un modo di vivere; è
un'interpretazione del mondo dal punto di vista di una società contadina che,
essendo sempre vicina alla natura, deve spiegarsene l'assoluta crudeltà. Nella
natura non c'è giustizia; non c'è mai resa di conti. Allora perchè volerla fra
gli uomini che sono anche parte della natura?
Il buddhismo poi non ha aspirazioni di conquista, non è missionario, non è
a caccia di anime. Vuoi essere buddhista? Prego. Affar tuo! Per questo anche la
meditazione non l'hanno mai insegnata e non è certo un caso che il diffondersi del
buddhismo oggi nel mondo - a parte il fenomeno tibetano - sia dovuto
soprattutto ai convertiti occidentali che, non avendo perso il loro originario
istinto di crociati, aprono ora centri per la diffusione di questa religione in
vari paesi.
Al fondo il buddhismo, se preso sul serio e portato alle sue estreme
conseguenze, è la negazione della società civile e ovviamente del progresso. Se
tutto è transitorio, se non si può sfuggire alla legge di causa effetto e
l'unica salvezza è acquistare indifferenza dinanzi alla vita, è meditare per
uscire dal terribile ciclo di nascita e morte, allora tutto è irrilevante,
tutto è inutile, tutto dovrebbe fermarsi: una visione di grande pessimismo e
con conseguenze nichilistiche.
Che società sarebbe quella in cui i membri applicassero fino alle ultime
conseguenze queste idee? Una società veramente buddhista non potrebbe che
essere immobile, inattiva. In pratica ovviamente non ce n'è mai stata una così
e tutte hanno continuato ad esistere grazie a una formula di grande tolleranza:
hanno lasciato meditare i monaci (e fra quelli, di solito i meno dotati, mentre
i più intelligenti si dedicavano alla dottrina) e hanno lasciato la gente ad
"acquistarsi meriti", facendo donazioni per mantenere in vita i monasteri.
I comuni mortali continuavano a vivere secondo natura, mentre i bonzi
servivano, con il loro esempio, a ricordare tutte le virtù che gli altri non
potevano avere. Con questo si stabiliva un equilibrio e la società andava
avanti, dimenticando il pessimismo.
Nelle ore difficili della meditazione pensavo a tutti gli occidentali che
avevo conosciuto durante l'anno e che - come dicono i buddhisti - si erano
"rifugiati" nel Dharma: Karma Chang Choub, il Bikku olandese e tutti
i meditatori seduti sui loro piedi attorno a me. Ero anch'io così?
Vent'anni prima ero venuto in Asia a cercar di capire Mao e Gandhi ed eccomi
qua, a cercar di meditare con un ex agente della CIA e con un generale a riposo
della polizia thailandese! Per giunta senza successo...
La prima ora di meditazione, ancor prima che il sole si alzasse, era la più
bella. Un vento fresco, sfumato di odori, soffiava dalla valle, attraversava la
terrazza, sfiorava quelle masse triangolari, immobili, di gente avvolta nelle
coperte e scompariva nella foresta ancora nerissima sulla collina. John, nella
sua coperta bianca che gli copriva metà della faccia, era un'incoraggiante
presenza. Ai suoi piedi, il generale era la riprova che meditare era possibile:
stava immobile, ma era in qualche modo lontanissimo. Seduto, guardavo a lungo
questa muta scena di pace, prima di chiudere anch'io gli occhi. Mi pareva che
il gruppo come tale sprigionasse una grande energia e che lo sforzo comune
elevasse lo sforzo di ciascuno.
La mattina dell'ottavo giorno elevò anche il mio. Le gambe mi facevano
malissimo, stavo di nuovo per cedere, ma d'un tratto la sofferenza s'acquietò,
il dolore non mi fece più paura, cominciò a sciogliersi e sparì. Ce l'avevo
fatta. La mente non era più una scimmia che saltava di ramo in ramo. Era mia. Fu
un grande piacere. Poi sentii le parole di John: "Lascia andare... Lascia
andare... Non attaccarti a niente... Non desiderare niente". Anche quel
piacere d'aver domato la mente, d'aver dominato il dolore, era passeggero,
era aniiccia e lasciai che se ne andasse. Tornai al
punto dove il respiro toccava la pelle e mi parve di vedermi separato: la
mente, fuori di me, che guardava il corpo ridotto a uno scheletro insensibile,
attraverso il quale sentivo, vedevo soffiare la brezza dell'alba. Una
sensazione che non avevo mai provato prima. Sentii la voce di John dire il
suo amen sentii il gong annunciare la colazione, ma rimasi
ancora immobile, come avessi perso un po' della mia pesante materialità.
Le ore successive non furono così belle, ma il tempo passava, senza che ne
aspettassi più con impazienza la fine. Meditare non era più una prova di
resistenza contro l'orologio, come stare sott'acqua finchè i polmoni non
scoppiano. Meditare era diventato quello che doveva essere: un esercizio di
concentrazione. Ebbi l'impressione di aver "imparato" qualcosa, come
a nuotare, a leggere. Ora toccava a me. Avevo messo la cavezza a questa bestia
che era la mia mente; si trattava di decidere in che direzione cavalcare.
Usai l'intervallo di mezzogiorno per andare a meditare in cima alla
cascata. Dopo anapana, entrai nella pelle, mi persi in una
cellula e mi si aprì il vuoto. Mi vennero incontro immagini dorate di volti di
gente che conoscevo: mia madre, mio padre, poi degli sconosciuti... poi dei
bellissimi colori. C'ero arrivato!
Ebbi di nuovo grandi crampi e difficoltà, ma ormai sapevo che passava, che
ero capace di tornare a quella porta e di attraversarla. Soprattutto avevo
capito la grandezza di Jonh e del suo metodo: arrivare all'idea della non
permanenza, alla coscienza di aniiccia, usando quel
dolore indotto dall'immobilità. Una volta accettato che anche il dolore, come
tutto il resto, era passeggero, il grande passo era fatto.
Quell'esperienza mi rafforzò nella mia ipotesi: L'esclusiva fede nella
scienza aveva tagliato fuori noi occidentali da un interessante bagaglio di
conoscenza. Avevamo imboccato l'autostrada del sapere scientifico e avevamo
dimentica tutti gli altri sentieri che un tempo, certo anche noi, conoscevamo.
Qui era la prova: il dolore non era soltanto un fenomeno fisico da mettere
sotto controllo con una pasticca. Addestrando la mente si poteva arrivare allo
stesso risultato.
Era forse questa la risposta alla domanda di Leopold? Che fosse questo
imparare nuovamente l'uso della mente qualcosa da mettere nelle valigie per non
avere, tornando un giorno in Europa, solo vecchie storie di marinai da
raccontare?
L'ultima ora di meditazione fu dedicata alla pratica dell'"amorevole
gentilezza". L'idea era che alla fine del corso, con la mente calma e
purificata, ci si rivolge a tutti gli altri esseri per spartire con loro i
meriti acquisiti con la pratica. Era un inno all'amore e John lo concluse
leggendo la sempre magnifica lettera di San Paolo ai Corinti: "Se avessi
l'eloquenza degli uomini o degli angeli, ma parlassi senza amore, sarei come un
gong che rimbomba o un cimbalo che tintinna. Se avessi il dono della profezia,
se capissi tutti i misteri e conoscessi tutte le cose e se avessi la fede da
muovere le montagne, ma non avessi l'amore, non sarei che un niente..."E
niente hanno aggiunto venti secoli di pensiero.
Fu poi recitato un lungo elenco di persone cui andarono i nostri
ringraziamenti e una parte dei "meriti" per aver contribuito al
corso. Fra queste c'era anche la tenutaria di uno dei più famosi massage-parlours di
Bangkok, che aveva offerto tutti i nostri pasti vegetariani. Anche questa era
la Thailandia! Fummo sciolti dai voti e liberati dall'impegno al Nobile
Silenzio. Alla sera ci sarebbe stata una cena - non vegetariana e con vino -
per celebrare la fine del rito e per permettere ai partecipanti di parlarsi e
di conoscersi. Non era certo quel che volevo! Presi il mio sacco e scappai via.
Grazie Tiziano |
L'esperienza di Tiziano Terzani è stata quella
di migliaia di altre persone, che per una strana alchimia si sono ritrovate
tra le mani, la preziosa gemma del "Dhamma". Il Buddha diceva che
ricevere il Dhamma è una delle benedizioni più grandi e chi lo riceve è a
causa di una qualche buona azione fatta nella vita precente. Chi vive questa
benedizione ne comprende la verità e sente di aver intrapreso un percorso
nobile di estrema rarità.
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Auguro a tutti di ricevere il Dhamma, di
progredire nel Dhamma, di diffondere il Dhamma.
Maurizio Falcioni
Jhon Coleman |
Per info: https://www.dhamma.org/
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